Il fenomeno del “Great Resignation”, nato negli USA, si insidia sempre di più anche nelle aziende italiane. Secondo le rilevazioni del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel nostro Paese fra aprile e giugno 2021 quasi mezzo milione di persone ha dato le dimissioni.
Il fenomeno in Italia e nel mondo
Secondo gli ultimi dati del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, ad agosto 2021 è stato raggiunto il valore record di 4,6 milioni di americani che hanno lasciato volontariamente il lavoro.
Secondo uno studio di McKinsey, il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi, il 53% dei datori di lavoro ha affermato di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti e il 64% si aspetta che il problema continui, o peggiori, nei prossimi sei mesi.
Analizzando i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulle cessazioni dei rapporti di lavoro nel secondo trimestre del 2021, emerge è che c’è stata una crescita tendenziale del +43,7%, In particolare tra aprile e giugno c’è stato un incremento delle cessazioni che ha fatto registrare 2 milioni 587mila chiusure dei rapporti lavorativi, con una crescita del 37% rispetto al trimestre precedente e un +768mila unità rispetto allo stesso trimestre del 2020. Di queste, 484mila per dimissioni volontarie dei lavoratori. E in generale la quota di abbandono volontario sul totale degli occupati ha superato il 2% per la prima volta da anni.
Le cause e motivazioni del turnover
Negli Stati Uniti, in cui il fenomeno si è mostrato prima e su grande scala, sembra che il motivo prevalente delle dimissioni non sia la retribuzione. Tra gli aspetti propulsori stanno emergendo la qualità del lavoro e della vita, il bisogno di soddisfazione, di autorealizzazione, di crescita sociale e personale, di una maggiore ‘libertà’.
Lo sforzo e la preoccupazione dovute alla pandemia, alle incertezze, agli eccessivi carichi di lavoro e non solo, potrebbero aver semplicemente portato i lavoratori ad un punto di rottura arrivando a ripensare i propri obiettivi di lavoro e di vita.
In Italia il 5° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale evidenzia che l’82,3% dei lavoratori (l’86,0% tra i giovani, l’88,8% tra gli operai) si dice insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più. In particolare:
- Il 58,1% dei lavoratori ritiene di ricevere una retribuzione non adeguata al lavoro svolto.
- Pensando alla propria occupazione, il 68,8% dei lavoratori si sente meno sicuro rispetto a due anni fa.
- Nell’ultimo biennio il 66,7% dei lavoratori (il 71,8% tra i millennial) ha vissuto uno stress aggiuntivo per il lavoro e il 73,8% teme che in futuro dovrà fronteggiare nuove emergenze lavorative, con impatti rilevanti sulla propria vita quotidiana:
- il 58,0% ha riscontrato difficoltà nell’utilizzo dei dispositivi digitali
- sullo smart working: il 25,1% non vorrebbe farlo, il 32,9% è soddisfatto e vorrebbe proseguire, il 42,0% opterebbe per una soluzione ibrida
- il 39,7% degli occupati afferma di non disporre di tempo libero in modo sufficiente
Il peso non indifferente della possibilità di poter gestire in libertà il proprio tempo e raggiungere un buon livello di bilanciamento vita-lavoro per coloro che cambiano o cercano il lavoro è confermato anche dallo lo studio Employer Brand Research di Randstad, condotto su oltre 190.000 lavoratori.
E tu azienda cosa puoi fare per arginarne gli effetti?
È importante che le organizzazioni prendano consapevolezza del fenomeno e che capiscano le motivazioni specifiche delle persone che se ne vanno, così da individuare le azioni da mettere in campo.
Ad esempio, partendo dallo studio già citato di McKinsey: c’è un gap tra le motivazioni reali che spingono le persone a cambiare e quelle che pensano i loro datori di lavoro.
Il grafico che segue evidenzia che i primi fattori per importanza citati dai dipendenti sono il non sentirsi apprezzati dalle loro organizzazioni (54%) o dai loro manager (52%) e il non sentire un senso di appartenenza al lavoro (51%). I datori di lavoro, invece, ritengono che i dipendenti si licenzino soprattutto per la retribuzione, lo scarso equilibrio tra lavoro e vita privata e la non attenzione alla salute fisica ed emotiva.
Di conseguenza risulta fondamentale ascoltare i dipendenti e farsi le domande giuste:
- I Leader sono in grado di motivare e ispirare i loro team, e di guidarli con passione?
- Le persone giuste sono nei posti giusti?
- Quanto forte è la cultura dell’organizzazione, se questa esiste effettivamente?
- Quanto è forte la leva economica nel determinare la forza del rapporto che si ha con le persone ?
- I benefit previsti sono in linea con quelli che si aspettano le persone?
- I dipendenti vogliono percorsi di carriera e opportunità di crescita. In che misura si riesce ad accontentare queste esigenze?
- Le retribuzioni sono in linea con le mansioni e le competenze?
- Le condizioni di lavoro sono sicure e orientate ad un work-life balance?
- Quanto si è davvero flessibili (e non solo sulla carta)?
- L’impegno che si ha verso le persone che lavorano da tempo in azienda è lo stesso che si ha quando si vuole reclutare qualcuno?
- In che misura si adotta l’ascolta ttiva in azienda?